Ho fotografato invece di parlare! Il valore “comunicativo” dell’immagine.
Vi ricordate la famosa fotografia di Steve Mc Curry scattata nel 1984 nel campo si rifugiati di Nashir Bagh?
Non potete non ricordarla!
E’ la famosa foto pubblicata sulla copertina della rivista “National Geographic” del 1985: ritrae una ragazzina che sembra guardarci negli occhi con sgomento. Scattata negli anni ’80, documentava ciò che succedeva in uno spazio e in un tempo precisi.
Nel 2002, in occasione della guerra che nuovamente sconvolgeva (e tuttora sconvolge) l’Afghanistan, la bambina è stata rintracciata dallo stesso Mc Curry. Sono passati diciotto anni, è ormai una donna adulta e viene ritratta nella stessa posizione: comunica ancora il dolore di chi vive in uno stato di guerra.
Insomma, le immagini spesso comunicano più di tante parole!
La funzione “comunicativa” dell’immagine è antica quanto il mondo. Gli uomini primitivi realizzavano “graffiti” per lasciar traccia di sé e della propria esperienza.
Quando non esistevano segni grafici per comunicare attraverso la scrittura, gli antichi egizi utilizzavano i famosi “geroglifici”: simboli più simili a immagini che alla scrittura in senso stretto.
Il MedioEvo è ricco di Arazzi che, attraverso serie di immagini, raccontano vere e proprie storie!
Quello di rappresentare il mondo per immagini è un “bisogno” innato del genere umano.
Una immagine può assolvere a funzioni diverse e comunicare nei modi più disparati.
Molti scrittori per arrivare al “prodotto letterario” in sé, partono da una immagine mentale, che poi trasformano in parole, in scrittura. Per Italo Calvino, per esempio, l’immagine rappresenta il punto di partenza di una determinata storia, la scintilla che basta a mettere in moto la macchina della immaginazione narrativa.
Tant’ è che nella prefazione all’ opera “I nostri antenati” scrive:
“All’ origine di ogni storia che ho scritto c’è un’immagine che mi gira per la testa, nata chissà come e che mi porto dietro magari per anni. A poco a poco mi viene da sviluppare questa immagine in una storia con un principio e una fine, e nello stesso tempo […] mi convinco che essa racchiude qualche significato “.
Calvino scrive, addirittura, un romanzo intitolato “Avventura di un Fotografo”, dove parlerà di Antonino Paraggi, un fattorino ossessionato dalla smania di tradurre in una immagine “eterna” un momento irripetibile della vita. Ossessionato dal desiderio di “intrappolare” ciò che sfugge.
E’ con Palomar (nome, non a caso, tratto dall’ osservatorio astronomico californiano), il suo personaggio, a mio avviso, più interessante, però, che Calvino conquista la chiave di volta di tutta la sua “filosofia dello sguardo”. In questo racconto l’autore si concentrerà sull’ occhio umano e sua capacità di fotografare immagini.
Questo personaggio è un uomo di una certa età, che vuole recuperare uno “sguardo vergine” non usurato da precostituiti schemi ideologici o scientifici. Come tutti gli uomini, è condizionato dal sistema di segni di cui dispone e a cui si è abituato. Palomar giunge alla conclusione che per riuscire a “guardare” (nel senso stretto del termine) bisognerebbe annullare l’Io.
Siccome questo è impossibile, semplicemente, Calvino fa in modo che Palomar cominci a riflettere sul senso della vita e, soprattutto, sulla sua negazione. Pensando alla morte, quest’uomo cominvia, finalmente, a “guardare” con occhi nuovi la sua stessa vita e tutto quello che lo circonda.
Alla luce di questo breve excursus “sul valore comunicativo” dell’immagine, riflettiamo sul valore comunicativo del tipo di immagine che, nello specifico, più ci appartiene: la Fotografia.
Il nostro “occhio fotografico” (non la nostra fotocamera!!!) quanto è capace di produrre immagini COMUNICATIVE?
Perché scatto?
Scatto per compiacere gli altri, per essere ammirato, giudicato? O perché ho qualcosa da COMUNICARE, da raccontare al mondo, da condividere?
Le immagini che il mio “occhio fotografico” produce quanto recano della nostra “visione del mondo” o della nostra sensibilità?
La verità è che la fotografia COMUNICA e racconta nella stessa misura di un romanzo, di una poesia … di una canzone… La potenza comunicativa di una immagine è pari (o addirittura superiore) a quella della “parola scritta”.
E questa valenza comunicativa è determinata non tanto dalla qualità o dalle prestazioni della fotocamera utilizzata, ne dalla tecnica , quanto dalla sensibilità dell’occhio di chi scatta.
Una immagine comunica nella misura in cui dietro la fotocamera c’è una persona capace di parlare senza parole.
L’immagine diventa un potente veicolo di trasmissione di concetti, sentimenti, emozioni … soltanto se chi scatta è capace di esprimere concetti, sentimenti, emozioni!
Dunque, se dietro uno scatto c’è un lavoro di ricerca creativa, ma soprattutto di ricerca su stessi, maggiore è la possibilità che l’intento comunicativo di quello scatto risulti efficace e sincero.
Bisognerebbe recuperare la capacità di scattare per se stessi e non per compiacere gli altri.
Bisognerebbe scattare ricordando la famosa espressione di Pennac: “Ho fatto delle foto. Ho fotografato invece di parlare. Ho fotografato per non dimenticare. Per non smettere di guardare”..